Manuele Ciappi (Prato, Italy)
1.
La nozione di «idem factum» adottata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
Nel contesto europeo, la nozione di idem factum, rilevante in sede penale, è stata definitivamente declinata ad opera della giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo: il riferimento è, in particolare, alla sentenza Zolotukhin v. Russia[1].
In tale pronuncia, la Corte di Strasburgo, dopo avere assunto approcci diversi – che ponevano l’enfasi, ora sull’identità naturalistica dei fatti costituenti oggetto di due diversi procedimenti, indipendentemente dalla loro qualificazione giuridica (accettando la tesi che l’identità può essere ritenuta anche in presenza di titoli di reato diversi), ora sull’esistenza di elementi essenziali comuni ai differenti reati sottoposti ad accertamento in due distinte sedi – ha, infine, chiarito che per “stesso fatto” (“same offence“), ai fini della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, deve intendersi un fatto naturalisticamente o “sostanzialmente” identico ad un altro.
Si è decretato, così, il superamento dell’idem factum legale, in nome di un approccio marcatamente “sostanziale”, che valorizza l’identità dei fatti materiali, intesa come “esistenza di un insieme di fatti inscindibilmente collegati tra loro, indipendentemente dalla qualificazione giuridica di tali fatti o dall’interesse giuridico tutelato” (idem factum).
Nel solco tracciato dalla sentenza della Grande Camera della Corte, si è collocata anche l’interpretazione offerta dalla giurisprudenza costituzionale italiana, allorquando la sentenza n. 200/2016 della Corte costituzionale[2], dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 649 del codice di procedura penale italiano, nella parte in cui escludeva che il fatto fosse il medesimo per la sola circostanza che sussistesse un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza irrevocabile ed il reato per cui fosse iniziato un nuovo procedimento, ha affermato che l’identità del fatto va apprezzata alla luce di circostanze fattuali concrete, indissolubilmente legate nel tempo e nello spazio, col ripudio di ogni riferimento alla qualificazione giuridica della fattispecie.
In altre parole, il criterio dell’idem factum sostanziale deve prevalere su quello dell’idem factum legale, precisandosi che l’identità del “fatto”, ai fini dell’applicazione del canone del divieto di doppio giudizio, sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona.
Tale approccio della Corte Costituzionale risulta accolto anche dalla più recente giurisprudenza della Corte Suprema di Cassazione italiana[3].
2.
La vicenda posta all’attenzione della Corte d’Appello di Francoforte sul Meno.
Il caso posto all’attenzione della Corte d’Appello di Francoforte sul Meno riguardava una cittadina italiana, tratta in arresto in Germania, in esecuzione di un mandato di cattura fondato su una “red notice” diramata dall’Interpol Statunitense: gli Stati Uniti d’America, infatti, avevano richiesto l’estradizione della predetta in forza di un mandato di arresto emesso il 25 maggio 2011, per reati afferenti la commercializzazione di opere d’arte contraffatte, contestati come commessi dal luglio del 1999 all’ottobre del 2007.
Tuttavia, per le medesime fattispecie di reato, si era già proceduto penalmente in Italia, ove il procedimento penale promosso a carico della predetta si era concluso, nel 2013, con una sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti (c.d. patteggiamento) emessa dal Tribunale di Milano e divenuta formalmente irrevocabile.
Pertanto, l’Italia invocava l’operatività, nel caso di specie, del principio del ne bis in idem comunitario, quale principio opponibile ad uno Stato terzo non comunitario ed ostativo all’accoglimento, da parte della Germania, della richiesta di estradizione avanzata dagli Stati Uniti.
La Corte d’Appello di Francoforte sul Meno ha dichiarato inammissibile la domanda di estradizione della prevenuta formulata dagli Stati Uniti d’America ed ha, pertanto, revocato, in data 10 gennaio 2020, il mandato di arresto emesso nei suoi confronti.
3.
Il divieto di doppio giudizio come principio di rilevanza comunitaria.
Il principio del ne bis in idem trova in Europa un’applicazione pressoché generale, essendo assurto al rango di diritto fondamentale del cittadino con il Protocollo aggiuntivo n. 7 alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, firmato il 22 novembre 1984, che all’art. 4 enuncia il diritto a non essere giudicato o punito due volte[4].
Un primo importante riconoscimento del valore europeo del giudicato penale si è avuto nella Convenzione europea sulla validità internazionale dei giudizi repressivi, aperta alla firma a L’Aia il 28 maggio 1970, nella Convenzione europea sulla trasmissione europea dei giudizi repressivi, aperta alla firma a Strasburgo il 15 maggio 1972, nonché nella Convenzione di Bruxelles del 25 maggio 1987, sull’applicazione del principio del ne bis in idem in ambito europeo, laddove esso viene considerato come un “effetto internazionale del giudicato reso in ciascuno degli Stati membri“, mediante una formulazione successivamente ripresa nella Convenzione di Schengen.
Al di là dell’espresso richiamo al principio del ne bis in idem effettuato, tra l’altro, nella Convenzione del 26 luglio 1995 sugli interessi finanziari delle Comunità europee (art. 7) e nella Convenzione sulla lotta contro la corruzione, nella quale siano coinvolti funzionari delle Comunità europee (art. 10), l’espresso riconoscimento della rilevanza del divieto di doppio giudizio di un livello superiore a quello nazionale si è avuto con la Convenzione del 19 giugno 1990 di applicazione dell’Accordo di Schengen, soprattutto dopo che essa è entrata a far parte dell’acquis comunitario, con il protocollo sottoscritto ad Amsterdam il 2 ottobre 1997.
Infatti, l’art. 54 della Convenzione (recepita in Italia con la legge 30 settembre 1993, n. 388), stabilisce che “una persona che sia stata giudicata con sentenza definitiva in una parte contraente non può essere sottoposta ad un procedimento penale per i medesimi fatti in un’altra parte contraente, a condizione che, in caso di condanna, la pena sia stata eseguita o sia effettivamente in corso di esecuzione attualmente o, secondo la legge della parte contraente di condanna, non possa più essere eseguita“.
In questo modo, si è attribuita al giudicato nazionale un’efficacia preclusiva in ordine all’esercizio dell’azione penale per lo stesso fatto in qualunque altro Stato membro.
Dunque, con l’art. 54 della Convenzione si è realizzata una “sostanziale” validità/efficacia comunitaria delle sentenze definitive pronunciate da ciascuno degli Stati contraenti: ciò, sulla base della “sostanziale” omogeneità degli ordinamenti dei Paesi firmatari dell’accordo, per effetto della comune adesione ai principi generali del diritto comunitario ed al quadro di garanzie sostanziali e processuali inerente il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali del cittadino europeo.
D’altra parte, la Corte di Giustizia del Lussemburgo individua il presupposto del principio del ne bis in idem proprio nell’esistenza di un rapporto di reciproca fiducia degli Stati membri nell’ambito di uno spazio giudiziario comune, in cui ciascun Paese è tenuto ad accettare l’applicazione del diritto penale vigente negli ordinamenti degli altri Stati membri, “anche quando il ricorso al proprio diritto nazionale condurrebbe a soluzioni diverse“[5].
Con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (c.d. Carta di Nizza) – la quale, per effetto del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, ha assunto lo stesso valore giuridico dei Trattati istitutivi dell’Unione – il principio del ne bis in idem si è consolidato ulteriormente nella sua dimensione europea ed è stato configurato come un vero e proprio diritto a tutela dell’imputato.
L’art. 50 della Carta di Nizza enuncia, in particolare, il diritto di non essere giudicati o puniti due volte per lo stesso reato: “nessuno può essere perseguito o condannato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato nell’Unione a seguito di una sentenza penale definitiva conformemente alla legge“.
Nella sua efficace sinteticità, il predetto art. 50 offre una più ampia forma di tutela del principio del ne bis in idem, nella misura in cui va oltre la necessità di richiamare l’applicazione del principio nelle singole disposizioni pattizie e lo configura come una garanzia generale da invocare nello spazio giuridico europeo, ogni qual volta si sia formato un giudicato penale su un dato fatto e nei confronti di una data persona.
Il suo inserimento nella Carta di Nizza, tra i diritti fondamentali dell’Unione europea, gli assicura il valore di principio generale nell’ambito del diritto europeo dell’Unione, ponendosi, per i diversi giudici nazionali, come norma vincolante e funzionale alla realizzazione di un comune spazio giudiziario europeo, in cui venga ridotto il rischio di conflitti di competenza: è l’effetto del riconoscimento del valore vincolante della Carta dei diritti fondamentali (art. 6 par. 1 del Trattato dell’Unione Europea).
Nell’ambito dello spazio applicativo dei diritti fondamentali previsti nella Carta di Nizza, si ritiene, dunque, che il principio del ne bis in idem di cui all’art. 50 debba trovare pieno riconoscimento negli ordinamenti interni europei, nel senso che ogni giudice nazionale debba darvi attuazione attraverso il riconoscimento delle sentenze emesse da altri giudici appartenenti agli Stati membri dell’Unione.
In sostanza, in ambito europeo, ogni sentenza emessa da uno Stato membro deve valere quale sentenza di ogni singolo Stato, sul presupposto che essa sia stata pronunciata in un ordinamento fondato sul rispetto dei diritti umani e delle garanzie difensive che costituiscono il nucleo del giusto processo. Il giudice interno è anche giudice dell’Unione europea e come tale è tenuto ad applicare i principi ed i diritti fondamentali che fanno parte dell’assetto costituzionale dell’Unione, che si basa anche sull’idea di una “comunità di diritti” (Grundrechtsgemeinschaft).
Spetta, infatti, al giudice nazionale, che deve confrontarsi con il sistema integrato delle fonti costituzionali, comunitarie e internazionali, nonché con la legislazione dell’Unione, assicurare la costante tutela dei diritti fondamentali: tra essi – di conseguenza – rientra anche il fondamentale diritto individuale alla applicazione, in proprio favore, del principio del ne bis in idem, il quale, essendo posto a tutela di ciascun individuo, deve essere assicurato e garantito a chiunque sia già stato giudicato da un’autorità giurisdizionale di uno Stato membro dell’Unione europea, anche a prescindere dalla sua cittadinanza europea.
Valga la pena osservare, peraltro, come la fungibilità dei giudicati emessi da paesi interni all’Unione sia stata già ampiamente riconosciuta nell’ambito della Decisione Quadro 2002/584/GAI del Consiglio dell’Unione Europea, nella quale, all’art. 3 n.1), si introduce, quale motivo di non esecuzione obbligatoria del mandato di arresto europeo da parte dello Stato richiesto, l’esser venuti a conoscenza del fatto che la persona ricercata sia stata già giudicata per gli stessi fatti per cui gli si richiede la consegna “da parte di uno Stato membro”, a condizione che, in caso di condanna, la sanzione sia già stata applicata o sia in fase di esecuzione o non possa più essere eseguita in forza delle leggi dello Stato membro della condanna[6].
4.
Un precedente giurisprudenziale della Corte Suprema di Cassazione italiana, reso in ossequio ai citati principi.
Sulla base dei presupposti sinora ripercorsi, la Corte Suprema di Cassazione italiana ha rigettato la richiesta di estradizione rivolta alle Autorità italiane dalla Repubblica di Turchia, per l’avvio di un procedimento penale nei confronti di un cittadino turco in relazione a un fatto di reato per il quale l’estradando era già stato condannato da un Tribunale tedesco.
Applicando i principi sopra enunciati al caso in esame, la Corte italiana ha affermato che si sarebbe dovuto tenere conto della sentenza emessa nei confronti del ricorrente dall’Autorità giudiziaria tedesca e riconoscere la sussistenza del ne bis in idem.
I giudici hanno osservato, in particolare, che non aveva importanza alcuna che la precedente pronuncia provenisse da un Paese terzo rispetto alla procedura di estradizione avanzata dalla Turchia verso l’Italia, assumendo decisivo rilievo che la sentenza fosse stata emessa da uno Stato membro dell’Unione, nel cui ambito il diritto a non essere nuovamente giudicato per il medesimo fatto deve essere rispettato ed imposto da ogni giudice nazionale che faccia parte dell’Unione Europea.
Dunque, in quel caso, del tutto analogo a quello che qui ci occupa, uno Stato membro, ossia l’Italia, ha negato l’estradizione verso uno Stato terzo non comunitario, ossia la Turchia, di un soggetto già giudicato da altro Stato membro, ossia la Germania.
Si versava, in tale caso, nell’ambito dell’attuazione della materia dell’Unione europea, essendo sufficiente a integrare un elemento di collegamento con il diritto dell’Unione, il fatto che l’estradizione fosse stata richiesta per il reato di traffico di stupefacenti, materia espressamente prevista dall’art. 83 par. del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea[7].
5.
La linea seguita dalla Corte d’Appello di Francoforte sul Meno.
La Corte tedesca, preliminarmente e perentoriamente, rilevava l’identità dei fatti oggetto della contestazione mossa alla cittadina italiana dagli Stati Uniti d’America, con quelli oggetto della sentenza emessa nei suoi confronti dal Tribunale di Milano nel 2013, rientrando essi, pienamente, nella nozione di “idem factum” fornita dalla Convenzione di Schengen e confermata dall’interpretazione resa dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, richiamata supra sub 1).
Secondo la Corte di Francoforte sul Meno, l’“identità dei fatti” comportava l’operatività, nel caso di specie – oltre che dell’articolo 8 dell’Accordo in materia di estradizione tra la Germania e gli Stati Uniti d’America – dell’articolo 9 della Convenzione europea di estradizione, aperta alla firma a Parigi il 13 dicembre 1957; tale articolo (rubricato “Ne bis in idem”), infatti, recita: “L’estradizione non sarà consentita quando l’individuo reclamato è stato definitivamente giudicato dalle autorità competenti della Parte richiesta per i fatti che motivano la domanda […]”.
La Corte tedesca, pur rilevando che tale norma troverebbe piena applicazione solo ove l’interessata fosse stata condannata da un tribunale tedesco (“le autorità competenti della Parte richiesta”, ossia la Germania), l’ha ritenuta, tuttavia, applicabile anche al caso di specie, alla luce del disposto degli articoli 18 e 21 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE)[8] e della giurisprudenza, formatasi sul punto, della Corte di Giustizia dell’Unione Europea.
Nel caso in esame, dunque, la Corte tedesca, dopo aver condiviso l’orientamento della giurisprudenza europea sull’operatività del principio del principio del ne bis idem comunitario, si è occupata dello specifico profilo afferente la procedura di estradizione, invocando, a sostegno della pronuncia di inammissibilità della richiesta di estradizione da parte degli Stati Uniti d’America, la sentenza della Grande Sezione della Corte di Giustizia resa nella causa C-182/15/Aleksei Petruhhin del 6 settembre 2016.
In tale pronuncia, la Corte era chiamata a giudicare se, ai fini dell’applicazione di un accordo di estradizione concluso tra uno Stato membro e uno Stato terzo, i cittadini di un altro Stato membro dovessero beneficiare, alla luce dei principi di non discriminazione in base alla cittadinanza e della libertà di circolazione e di soggiorno dei cittadini dell’Unione, dell’applicazione della regola che vieta l’estradizione dei cittadini nazionali. Sul punto, nelle linee essenziali, la Corte ha stabilito che lo Stato membro interessato, prima di estradare un cittadino dell’Unione, debba privilegiare lo scambio di informazioni con lo Stato membro di origine e consentire a quest’ultimo di chiedere la consegna del cittadino ai fini dell’esercizio dell’azione penale.
La Corte d’Appello di Francoforte sul Meno ha sintetizzato il principio espresso dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, precisando che “la protezione contro l’estradizione garantita ad un cittadino dell’Unione Europea nel suo Paese d’origine deve essere assicurata a quest’ultimo anche in altri Stati membri dell’Unione Europea”, posto che solo in questo modo “si può garantire che la libera circolazione di un cittadino dell’Unione Europea all’interno dell’Unione stessa non venga illecitamente limitata [in ossequio al disposto dell’art. 21 del TFUE, n.d.r.]”.
Di poi, con la sentenza, emessa dalla Grande Sezione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea il 10 aprile 2018 nella causa C‑191/16/Romano Pisciotti – anch’essa citata, nel caso in esame, dalla Corte tedesca –, il Giudice comunitario ha stabilito il principio secondo cui il diritto dell’Unione non impedisce ad uno Stato membro (nel caso in questione la Germania) di estradare verso gli Stati Uniti d’America, ai sensi dell’accordo USA-UE del 25 giugno 2003, un cittadino di un altro Stato membro (l’Italia) in transito sul suo territorio, purché lo Stato richiesto abbia preventivamente posto in grado le autorità competenti dello Stato membro di cui tale persona è cittadino di richiederne la consegna nell’ambito di un mandato d’arresto europeo e quest’ultimo Stato membro non abbia adottato alcuna misura in tal senso.
La Corte tedesca, in applicazione di tale principio, ha ritenuto che laddove si ammettesse che un cittadino dell’Unione Europea non possa subire la procedura di estradizione laddove arrestato nel suo Paese d’origine, mentre potrebbe essere estradato laddove venisse arrestato in un altro Stato membro dell’Unione, ciò condurrebbe ad una “differenza di trattamento inammissibile”; infatti, nel caso di specie, l’Italia non ha affatto mancato di esercitare l’azione penale nei confronti della propria cittadina, di talché, secondo la Corte tedesca, ciò “prevale sulla procedura di estradizione”, considerato che “solo in questo modo si può garantire che un cittadino dell’Unione Europea goda, in qualsiasi altro Stato dell’Unione Europea, di un livello di protezione contro le domande di estradizione che sia paragonabile a quello del suo Paese d’origine e possa quindi circolare liberamente all’interno dell’Unione Europea”.
La Corte d’Appello di Francoforte sul Meno, pertanto, ha concluso affermando che, tenuto conto del fatto che l’Italia aveva già avviato (e concluso) un procedimento penale nei confronti dell’imputata “per gli stessi identici reati (come indicato sopra), la Corte di appello non può estradarla negli Stati Uniti, secondo il divieto della doppia condanna”.
I passaggi sopra citati della motivazione della sentenza della Corte d’Appello di Francoforte sul Meno sembrano focalizzati sulla esigenza di garantire la libera circolazione dei cittadini dell’Unione Europea all’interno dell’Unione stessa, e sembrano voler valorizzare il divieto di doppio giudizio, in ambito comunitario, quale strumento di garanzia della predetta libertà, quasi a voler affermare che il cittadino europeo non debba rinunciare al suo pieno esercizio per il pericolo di subire, all’interno di un diverso Stato ospitante, una procedura estradizionale che gli sarebbe preclusa all’interno del suo Stato di appartenenza.
Si tratta di una prospettiva sinceramente limitativa: così motivando, infatti, si è posta in secondo piano la valenza che il divieto di doppio giudizio riveste in via autonoma – e non in funzione servente – come principio attinente alla garanzia di ciascuna persona: un significato che, a ben vedere, non si dovrà rinunciare a far valere, sub specie di diritto fondamentale dell’individuo (a prescindere dalla sua cittadinanza e dalla sua residenza), anche al di fuori dell’ambito comunitario.
[1] Grande Camera della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Zolotukhin v. Russia, 10 febbraio 2009.
[2] Corte Costituzionale italiana, sentenza del 21 luglio 2016, n. 200.
[3] Cassazione penale, sez. II, 6 novembre 2019, n. 50712; Cassazione penale, sez. V, 16 luglio 2019, n. 37454; Cassazione penale, sez. VI, 11 luglio 2019, n. 49975; Cassazione penale, sez. V, 15 febbraio 2018, n. 25651.
[4] “Nessuno potrà essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un’infrazione per cui è già stato scagionato o condannato a seguito di una sentenza definitiva conforme alla legge ed alla procedura penale di tale Stato“.
[5] Corte giustizia, 11 febbraio 2003, Gozutok e Brugge; Corte giustizia, 10 marzo 2005, Miraglia; Corte giustizia, 09 marzo 2006, Van Esbroeck.
[6] Tale previsione, peraltro, è stata recepita sia dall’Italia, all’art. 18 co.1 lett. m) della Legge n. 69/2005, sia dalla Germania, al par. §83 co.1 della Legge 21 luglio 2004 (“Legge sul mandato di arresto europeo”)
[7] Cassazione penale, Sez. VI, 15 novembre 2016, n. 54467, Rasneli.
[8] Articolo 18: “Nel campo di applicazione dei trattati, e senza pregiudizio delle disposizioni particolari dagli stessi previste, è vietata ogni discriminazione effettuata in base alla nazionalità. Il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria, possono stabilire regole volte a vietare tali discriminazioni.”;
Articolo 21: “1. Ogni cittadino dell’Unione ha il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, fatte salve le limitazioni e le condizioni previste dai trattati e dalle disposizioni adottate in applicazione degli stessi.
- Quando un’azione dell’Unione risulti necessaria per raggiungere questo obiettivo e salvo che i trattati non abbiano previsto poteri di azione a tal fine, il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria, possono adottare disposizioni intese a facilitare l’esercizio dei diritti di cui al paragrafo 1.
- Agli stessi fini enunciati al paragrafo 1 e salvo che i trattati non abbiano previsto poteri di azione a tale scopo, il Consiglio, deliberando secondo una procedura legislativa speciale, può adottare misure relative alla sicurezza sociale o alla protezione sociale. Il Consiglio delibera all’unanimità previa consultazione del Parlamento europeo.”.